BUONO COME IL PANE

Fino agli inizi del '900 le popolazioni dell'entroterra garganico vivevano in case piccole, spesso composte da un solo ambiente, posto il più delle volte sotto il livello stradale (“sottani”). Abitazioni, che oggi costituiscono i centri storici dei comuni del promontorio, costruite le une addosso alle altre, caratteristica che le lasciava fatalmente prive di finestre che garantissero luce e areazione adeguate.
Ambienti in larga misura umidi e poco salubri - soprattutto durante i lunghi e nevosi inverni del secolo scorso - dove vivevano nuclei familiari molto più numerosi di quelli attuali, ma senza corrente elettrica, acqua e fogna. Intere famiglie costrette a condividere il poco spazio a disposizione anche con animali domestici di piccola e media taglia, come le galline, tuttavia utili al ménage domestico.
Coloro che possedevano asini, muli o capre magari potevano permettersi abitazioni a due piani dove il piano a livello stradale fungeva da rimessa per le bestie e quello superiore per le persone.
Il mobilio, per le classi più povere, era ridotto all'indispensabile. L'esiguità degli spazi a disposizione del resto non avrebbe permesso il contrario. In quell'unica stanza che si chiamava casa, indipendentemente dal numero dei componenti, c'era quasi sempre un unico letto che per materasso aveva dei sacconi di tela riempiti con foglie di granoturco, un solo armadio, un tavolo con quattro seggiole, qualche cassapanca, il ripiano del pane.
Quest'ultimo, più di ogni altro mobile o suppellettile, era l'emblema di un'epoca.
Attraverso delle funi, che dalle estremità laterali del piano passavano dentro a dei ganci fissati al soffitto, questi rimaneva sospeso a mezz'aria. Lì, dove le mani di bambini e ragazzi non potessero arrivare neanche salendo sulle sedie.
Il pane era il cibo per eccellenza. Il viatico per insaporire la dieta ferrea dettata dalla misera imperante a base di verdure spontanee, patate e ortaggi di stagione, legumi. Il fedele compagno di frutta o formaggio per un boccone fuori l'unico pasto quotidiano. Il rifugio sicuro quando anche il companatico diventava una chimera. La pasta era rito riservato alla domenica. La carne, questa sconosciuta, a Natale e a Pasqua, se ne ricorrevano le coincidenze fortunate. In ogni casa si faceva il pane. La donna ne preparava l'impasto e lo posizionava nelle ceste in attesa che passasse il fornaio a ritirarle lungo tutta la strada. Per distinguerle le pagnotte recavano in superficie dei tagli distintivi sulla pasta o delle aggiunte di pasta decorative (una croce, una lettera, una figura geometrica), o anche una mandorla o una noce.
Il servizio di cottura del forno aveva un costo per ogni pagnotta. Giocoforza si ottimizzava l'infornata: le pagnotte erano più di una e si aggiravano mediamente intorno ai 6-8 kg ciascuna.
Su quel ripiano dunque stazionavano, dopo la sfornata, più pagnotte (due, tre, quattro a seconda del nucleo familiare) che rendessero l'utilizzo del forno necessario solo una o due volte al mese. Il numero delle pagnotte non era dettato quindi dall'abbondanza, ma dalla necessità di fare economia. Una filastrocca dell'epoca rende meglio lo stile di vita che era necessario adottare per affrontare le ristrettezze dei tempi.

“Pan rutt nun tuccate,
Pan sane nun muvite,
magnate figghje mije
quanta vulite”.

“Il pane tagliato non si tocca, il pane non ancora tagliato non va mosso. Per il resto, mangiate quanto volete”.
Il pane non si tocca, insomma. E quel che resta, senza pane, non si mangia. Si mangia, quindi, solo quando ci si mette intorno alla tavola per consumare il pasto del giorno. Credo bene che quando capitava sottomano un frutto fuori pasto avesse tutto un altro sapore, all'epoca!
A Pasqua, per la gioia dei bambini, nei forni di San Giovanni Rotondo si portava anche il “Crapio”: un cestello chiuso di pasta dolce (farina, acqua, uova e zucchero, aromatizzato con una spolverata di cannella). Un impasto simile veniva utilizzato per “lu prupat”, il dolce della sposa.
Il “crapio” si distingueva per il manico di pasta intrecciata che coronava il cestello, all'interno del quale riposavano due uova sode sgusciate. La superficie esterna del dolce veniva spennellata con tuorlo d'uovo sbattuto che lo rendeva colorato e luccicante.
Il “Crapio” si infornava una o due settimane prima della festa e si appendeva in casa al posto di un quadro, in attesa che il prete venisse a benedire la casa con un ramoscello di ulivo e che arrivasse la domenica di festa.
Quale dolce tentazione per i ragazzi! Appena si trovavano da soli, non perdevano occasione per sbriciolare con le dita quella parte di dolce che dava contro il muro, andando in profondità fino a raggiungere la sublimazione dell'uovo sodo.
Le uniche foto esistenti sul web di questo dolce sono quelle di Clementina Urbano, che sul suo blog “Dolcezze Infinite” ha documentato questa tradizione con dovizia di particolari.
Scopriteli su http://clementina-www.dolcezzeinfinite.blogspot.it/2012/04/crapio-pasquale-step-by-step-e-la-fine.html Nella vicina San Marco in Lamis, i dolci pasquali della tradizione sono “lu canestredd”, dolce di pasta lievitata, e “lu prupat”, simile a quello sangiovannese. Qui, la tradizione è tramandata anche grazie al talento e all’impegno di due giovani panificatori, Pascal Barbato di Fulgaro Panificatori (http://www.panetteriafulgaro.it/), e Antonio Cera di Forno Sammarco (http://www.fornosammarco.com/).
Antonio e Pascal sono due straordinari interpreti di antichi saperi che trasformano in nuovi sapori, utilizzando le eccellenze alimentari della propria terra.
Conosciuti e apprezzati in tutta Italia, non smettono di preparare cose buone come il pane, reinventando ogni giorno un mestiere antico come il mondo. 

A cura di Toni Augello